La stanza profonda dove non sono mai stato

Nella mia vita ho giocato di ruolo soltanto una volta. Accadde nel dicembre del 2002, a scuola, durante un’autogestione, quando frequentavo il quarto ginnasio. (Solo adesso, mentre lo scrivo, mi accorgo che sono passati esattamente vent’anni)

Funzionava così. Qualcuno aveva organizzato un “corso di giochi di ruolo”, regolarmente iscritto tra le attività ufficiali dell’autogestione. Nell’aula prescelta per l’attività si svolgevano in parallelo almeno due partite con altrettanti dungeon master. Costoro erano chiaramente figuri provenienti dal mondo esterno: gente che era stata chiamata per l’occasione – o forse si era intrufolata a scuola clandestinamente, ipotesi che dona al tutto un’aura ancora più mitica – e che ci metteva l’anima in quello che faceva. Non posso giurarlo, ma sospetto che non ci fossero individui di sesso femminile in quella stanza.

Comunque, io e alcuni compagni di classe ci iscrivemmo al corso e in qualche modo fummo fatti accomodare a un tavolo. Ignoro totalmente a cosa giocammo, ma l’ambientazione era tipicamente fantasy. Non ricordo la fase di creazione del personaggio, quindi suppongo che ci abbiano fornito delle schede pre-compilate, anche perché cominciammo a giocare subito. Ho invece un ricordo nitido del nostro dungeon master: un ragazzo sorridente e dalla parlantina coinvolgente, che abusava del termine “fantomatico” (lo utilizzò nell’arco di pochi secondi sia per una caverna che per uno scheletro). Erano gli anni della trilogia cinematografica de Il signore degli anelli, quindi il tizio faceva esplicitamente leva su quell’immaginario per tirarci dentro all’avventura.

A un certo punto il nostro dungeon master dovette assentarsi – mi piace pensare che l’avessero scoperto e fosse dovuto scappare precipitosamente dall’edificio scolastico. Fu sostituito da un ragazzo anonimo che esitava a ogni frase e che, come prima azione, pensò bene di rivolgere contro di me una maledizione che mi trasformò in un lupo mannaro assetato di sangue. I miei compagni di party mi ammazzarono a colpi di spada. Fine della mia prima e ultima esperienza con i giochi di ruolo.

Questo aneddoto del tutto secondario della mia esperienza liceale è per qualche motivo stampato a fuoco vivo nella mia memoria. Per cui, senza troppa sorpresa, si è materializzato davanti ai miei occhi mentre leggevo il bellissimo La stanza profonda di Vanni Santoni (edito da Laterza). Un libro che andrebbe letto da tutti i giocatori di ruolo, ma non solo.

Si tratta di uno strano ibrido tra memoir, romanzo e saggio, tutto scritto in seconda persona, che prende le mosse da una situazione archetipica: il ritorno alla casa natale, una cantina da svuotare, i ricordi che escono fuori dalle fottute pareti. La cornice narrativa è in realtà solo una scusa per un viaggio nella memoria tra gli anni ’80 e gli anni 2000: dalla scoperta dei giochi di ruolo alla ricerca disperata di giocatori (un’impresa non da poco in un paese di provincia), fino ad arrivare alla cristallizzazione di un gruppo fisso che frequenterà per decenni la stanza profonda del titolo – che poi non è altro che la più classica delle cantine. Tutt’attorno il mondo che cambia, le vite che evolvono, le amicizie che vanno e vengono, la provincia italiana (toscana nello specifico, ma il discorso è universale) che si svuota di persone e significato.

La stanza profonda è rimasto nella mia lista di libri da leggere per molto tempo. Ne avevo sentito parlare parecchio nei mesi successivi alla sua uscita, nel 2017, al punto da incuriosirmi anche se non ero mai stato un giocatore di ruolo. Il mio sesto senso nerd, però, mi aveva suggerito che in quel libro avrei potuto trovare qualcosa di interessante. E in effetti così è stato.

Innanzitutto, ci ho trovato i giochi di ruolo. Quella che ho raccontato in apertura è stata davvero la mia unica esperienza diretta, anche se negli anni ho sempre desiderato riprovarci: ma, un po’ come il protagonista de La stanza profonda, non ho mai trovato le persone giuste – oppure non nel numero sufficiente, o ancora non con abbastanza tempo a disposizione. Leggere questo libro è stata una piacevole immersione in quel mondo e nelle sue dinamiche: è strano, ma Santoni mi ha sbloccato dei ricordi che non avevo. Una buona parte del volume, comunque, è dedicata alla storia dei giochi di ruolo: sono parti piacevoli da leggere, inserite perfettamente nel testo e che, insieme alle note a piè di pagina, costituiscono la quota “saggio” del libro.

(Devo comunque specificare che, soprattutto durante l’adolescenza, ho giocato a diversi videogiochi di ruolo. Ovviamente non è la stessa cosa, ma sicuramente conoscere l’ambito videoludico aiuta nella comprensione di certe parti del libro. E comunque, vedere citato Monkey Island a un certo punto mi ha emozionato)

Ci ho trovato poi una rievocazione struggente della vita di provincia, un tema che mi è sempre molto caro. Le difficoltà e i pregiudizi cui vanno incontro i protagonisti sono cose note a chiunque sia cresciuto in contesti simili. Anche la voglia di andarsene – “nel capoluogo” mai nominato, oppure all’estero, come il membro del gruppo che finisce a lavorare all’Electronic Arts a Londra – è un sentimento trasversale e generazionale. E con essa la paura di tornare, ben esemplificata da questo passaggio magnifico:

E sì, pensi mentre amministri la fine di quello scontro, sembrava quasi che voi, voi rimasti, foste ancora tutti lì per il gioco; o meglio il gioco rappresentava l’ostinazione di alcuni, la prudenza di altri, la necessità di altri ancora, di rimanere nella terra desolata, e anche tu, del resto, non te ne eri già andato nel capoluogo? E quante volte avevi considerato l’idea di spostarti ancora più in là, di lasciare l’Italia, ma non sarebbe stato spaventoso, poi, rientrare? Se ti capita di dover tornare, hai bisogno di un’Itaca, non di una Mordor…

Infine ci ho trovato, filtrata dalla consapevolezza dell’età adulta, tanta malinconia per il tempo che passa. E questa cosa mi faceva impazzire già a quindici anni, figuriamoci adesso che comincio ad avere a pieno titolo il diritto di provare questo sentimento. Troppa tristezza? Per fortuna ci viene in soccorso questa citazione di Dostoevskij con cui si chiude il libro: In ogni caso non abbandonate mai il tavolo da gioco, perché il giorno che lo farete la festa sarà finita e sarete diventati inesorabilmente vecchi.

Insomma, leggere La stanza profonda è stato bello e pieno di spunti di riflessione. Forse non è un libro semplicissimo da leggere – dovete entrare in sintonia con lo stile dell’autore, che sulle prime può essere un po’ complesso da seguire – ma se il mondo dei giochi di ruolo vi interessa anche solo minimamente, questo è un libro che dovete avere. 

E se questo tema non vi interessa? Se, come me, non ci avete praticamente mai giocato? Be’, vi confesso che Vanni Santoni è riuscito in un’impresa da grande scrittore, di cui in pochi possono fregiarsi (nel mio caso Stephen King, per dirne uno): farmi provare nostalgia di qualcosa che non ho mai vissuto.

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